LA MILITARIZZAZIONE È SICUREZZA!

È questa la visione che negli anni si è andata diffondendo e consolidando in gran parte della popolazione che vede nella presenza dei presidi militari nelle strade (come previsto dal pacchetto Strade Sicure) e nello sviluppo e potenziamento di basi militari (nel nostro territorio possiamo pensare alla base Nato di Camp Darby) una risposta alle proprie necessità di sentirsi sicur* e protett* dalle numerose minacce che incombono quando a dominare è il degrado.
Ma cos’è la sicurezza (per loro)? E cos’è il degrado (per loro)?
La sicurezza è diventato un tema centrale nel dibattito politico odierno dove istituzioni e partiti fanno a gara a chi riesce ad affermarsi su questo campo. Una battaglia che sembra poter essere vinta solo superando a destra l’avversario politico (vedi il Pd con Minniti).
E’ questo forse uno dei nodi centrali, aver lasciato alle destre questo dibattito che lo ha poi condotto verso derive securitarie e militariste.
A questa constatazione si aggiunge un secondo punto: quando parliamo di sicurezza rispetto a cosa intendiamo sentirci sicur*?
Ecco che, nelle mani delle destre e delle istituzioni, sicurezza è stata intesa come difesa dei nostri valori contro il terrorismo jihadista, contro gli immigrati, contro l’ “invasore” nelle parole di Forza Nuova. Ed ecco, che sempre nelle stesse mani, sicurezza è diventata più controllo, più militarizzazione, più restrizioni, più ordinanze volte a combattere il degrado, più “stati d’emergenza”.
Degrado, altra parolona – minaccia protagonista in questi ultimi anni. E tanti soldati pronti a combattere per la causa. Ma di che degrado si parla? Degli studenti in Cavalieri che fanno nottata e lasciano le birre in terra? Di senzatetto che dormono in stazione? Di quelli che vendono birrini a 1 euro?
Perché se è questa la lotta di cui vogliamo farci carico, almeno che si chiariscano alcuni punti. Questa non è una lotta al degrado, questa è una guerra dichiarata alla povertà, al non-consumo, a quelle vite che non producono niente nel circuito capitalista.
Una guerra che non ci appartiene.

Cos’è la sicurezza per noi? Da cosa vogliamo sentirci sicur*?
Vogliamo provare a riappropriarci di un termine di cui alcuni soggetti si sono impossessati, e dissociarlo una volta per tutte da quel significato securitario e repressivo che ha assunto.
A noi piace sentirci sicur*, ci piace tantissimo camminare per strada ed essere seren* e tranquill*. Ci piace esserl* quando torniamo a casa la sera, quando siamo all’università, a lavoro, quando piove, quando andiamo all’ospedale, quando prendiamo i mezzi di trasporto, in ogni momento.
Ma per noi SICUREZZA significa smettere di militarizzare i territori e le città, smettere di giustificare uno stato repressivo con l’emergenza terrorismo e iniziare ad occuparci delle reali emergenze, che poi sono strutturali: le morti sul lavoro, i femminicidi, le alluvioni sono solo alcuni dei reali problemi che ci affliggono, responsabili di numerosissime di vittime.
Se per la sicurezza sui luoghi di lavoro, per il mantenimento di case per donne maltrattate, per la messa in sicurezza dei territori e delle infrastrutture esistenti (così come per la realizzazione di case popolari, per il finanziamento del diritto allo studio, alla salute, e per molte altre necessità) non vi sono risorse, ecco che queste risorse misteriosamente ricompaiono per finanziare il sistema bellico. Nel biennio 2016/2017 sono stati stanziati più di 15 miliardi di euro per l’acquisto di cacciabombardieri F-35, circa 2,75 miliardi a Finmeccanica, Oto Melara e altre industrie della guerra, più le risorse destinate a pagare i circa 7000 militari italiani impegnati in missioni all’estero (cifra che porta lo stato italiano a guadagnarsi un posto da protagonista sul fronte degli interventisti.) L’impegno in questa direzione viene confermato dal governo italiano che ha scelto di investire nel 2017 il 2% del Pil per le spese militari che ammontano a 64 milioni di euro al giorno.
È questo modo di intendere e ricercare la sicurezza che mettiamo in discussione.
Noi la sicurezza la vogliamo, eccome se la vogliamo nei luoghi di lavoro. Noi, donne, trans, gay, lesbiche, la sicurezza per strada la vogliamo. Non con le telecamere e i militari, ma con una lotta seria e sistemica al patriarcato e alla violenza che esso genera. Noi la sicurezza la vogliamo quando piove, non vogliamo più alluvioni e morti causati dal dissesto idrogeologico generato dalla politica delle grandi opere, o dalla generale noncuranza.
Noi vogliamo la sicurezza, ma vogliamo anche essere i primi e le prime ad avere voce in capitolo quando si parla della nostra sicurezza, e non subire un sistema repressivo e di controllo pensato e imposto dalle istituzioni.

LA MILITARIZZAZIONE NON È LA RISPOSTA, MA PARTE DEL PROBLEMA!

Essendo la cultura militarista intrisa di violenza non può che essere, la militarizzazione, un modo di riprodurre violenza, abusi e machismo. Basti pensare agli stupri commessi a settembre da due carabinieri a danno di due studentesse statunitensi, o gli stupri commessi dai militari di strade sicure a L’Aquila, dove erano presenti proprio per rispondere all’emergenza terremoto. O ai numerosi morti duranti fermi di polizia, come Cucchi, Aldrovandi, Uva, Lonzi…
Nei tentativi di gruppi fascisti di replicare il ruolo dei militari con le ronde, pensiamo che le strade diventeranno sicure? Potranno sentirsi al sicuro tutte quelle soggettività (migranti, non eterosessuali, non riconducibili al binarismo uomo-donna) la cui esistenza non è contemplata?
E ci può far sentire sicur* avere una base militare degli Stati Uniti, che opera all’interno della Nato, e che ha al suo interno armi e materiali di cui oltretutto la popolazione locale non può essere a conoscenza (proprio per via della nocività degli stessi)? E cosa rende un luogo più sensibile della presenza di una base militare strategica?
Ma soprattutto, è questa la sicurezza di cui realmente abbiamo bisogno?

Comunicato sul referendum del 4 dicembre

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L’Assemblea dell’Aula R, presa in considerazione la rilevanza che in questo contesto viene ad assumere la questione referendaria relativa alla riforma costituzionale e l’attenzione ad essa rivolta negli ambiti di movimento, ha scelto di esprimersi a riguardo e di condividere la propria posizione con le altre realtà.

L’Aula R oggi, come in passato, non intende partecipare a campagne referendarie o a competizioni elettorali. Per rispettare l’eterogeneità che caratterizza questo spazio e l’assemblea che lo anima, indipendentemente dalle posizioni dei singoli, l’Aula R cerca di sviluppare un dibattito e un’azione politica autonoma sia dai canali istituzionali sia da specifiche organizzazioni, tendenze o aree di movimento. In questa prospettiva l’assemblea ha ritenuto necessario sviluppare una riflessione critica rispetto all’istituto referendario e alla riforma costituzionale, una riflessione che a nostro avviso si impone a tutto il movimento. Da una parte si considera il referendum come strumento troppo spesso elevato a massima espressione di democrazia popolare nonostante siano numerosi i vincoli ad esso posto che ne sviliscono la portata, dall’altra ad un’analisi approfondita appare evidente che la riforma desiderata dal governo Renzi altro non sia che un riconoscimento giuridico di una prassi per molti versi già in atto. Gli aspetti qui citati, a nostro avviso,sono fondamentali per capire la necessità di non identificare nel referendum la vera battaglia politica (i cui esiti possono essere stravolti o comunque non recepiti come già avvenuto in occasione del referendum sul finanziamento dei partiti politici o sulla pubblicizzazione dell’acqua, solo per citare due casi tra i più noti) e che spesso sortiscono l’effetto di incanalare le numerose lotte sociali in un unico grande momento, in ogni caso insufficiente a far fronte all’involuzione autoritaria in atto da anni. Nessuno vuole negare che una vittoria del si nel referendum del prossimo 4 dicembre rappresenterebbe un consolidamento di questa tendenza, tuttavia si auspica che il voto referendario possa essere ridimensionato a quello che realmente è: un appuntamento fissato dal governo con un quesito riguardante una legge già esistente o in tal caso una riforma per consolidare una prassi già in auge con possibilità limitate di scelta (si o no) in cui la maggioranza, in questo caso in particolare, potrebbe essere anche un numero di elettori ristretto e i cui esiti possono essere facilmente stravolti. Come possiamo considerare questa la nostra battaglia? Come possiamo confondere questo insidioso strumento per un mezzo di reale espressione popolare e di partecipazione dal basso? Consci che le realtà alle quali ci rivolgiamo sono ben consapevoli dell’esigenza di partecipare sui territori, ci auspichiamo che il voto del 4 dicembre possa trovare il suo posto nel movimento come primo ma non più importante appuntamento e che le parole d’ordine possano tornare ad essere altre.

Il consenso riscosso dalle piattaforme per il no al referendum è espressione di un diffuso malcontento e di una forte volontà di opporsi al governo che si riscontra quotidianamente nelle lotte sul territorio. C’è la necessità di opporsi alle politiche governative, ma questa lotta non si deve esaurire nel momento del voto. Così come le rivendicazioni sociali non possono essere tutte incanalate in una battaglia istituzionale.

Per queste ragioni l’Aula R non parteciperà a comitati o coordinamenti di comitati per il referendum, ma di volta in volta deciderà se prendere parte ad iniziative, manifestazioni ed azioni contro il governo e l’involuzione autoritaria in atto, cercando al contempo di costruire momenti di lotta slegati da dinamiche istituzionali.

Assemblea dell’Aula R

Macellai di professione: contro Renzi e contro ogni autoritarismo

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Oggi, 29 aprile, Renzi arriva a Pisa per festeggiare i 30 anni dal primo collegamento internet del CNR. Questo evento rappresenta l’ennesimo teatrino in cui il premier esalterà i “grandi risultati italiani”.

Ma come sono stati raggiunti questi tanto elogiati “risultati”? Certamente non con il supporto dei governi: l’imponente disegno di sfruttamento, portato avanti con diligenza mandato dopo mandato, ha imposto politiche sociali ed economiche che hanno impoverito sempre di più i territori e le comunità, lasciando dietro di sé solo disgregazione sociale. Questo governo firmato PD, in particolare, ha legittimato le proprie politiche sotto la bandiera del progresso. Il “governo del fare”, che ha ridotto la politica all’hashtag, ha prodotto riforme nefaste, riducendo ogni forma di opposizione a mere “gufate”. Ma guardando oltre questa maschera, costituita da slogan ottimistici e linguaggio ad alto impatto mediatico, è facile scoprire quale sia il disegno neoliberista di cui Renzi e il suo governo si stanno facendo interpreti. Un progetto che incombe dall’alto e che, come una piovra, va a intaccare ogni segmento della società. Dalla Buona Scuola alla futura Buona Università, dal Jobs act allo Sblocca Italia, sino al nuovo Isee che va a minare l’accessibilità degli individui allo stato sociale, ogni aspetto della nostra quotidianità è stato profondamente segnato. Attraverso un perenne ricatto su ogni individuo e su ogni sfera del vivere quotidiano, lo Stato, con le istituzioni e i volti che lo rappresentano, porta avanti un progetto di sfruttamento intensivo degli individui e dei territori, alimentando la rivalità e il conflitto tra frammenti di una società vittime dello stesso disegno. In questo clima di forte competizione e alienazione, le realtà che resistono e lottano vengono ricoperte da una cortina fumogena e riportate prepotentemente all’opinione pubblica solo nei termini e nelle modalità desiderate dai poteri forti, creando un’immagine delle lotte distorta e funzionale al governo, come accaduto con il movimento NoExpo. Uniche risposte delle autorità a chiunque si ribelli sono la militarizzazione, la repressione e il controllo sociale, in un clima sempre più autoritario. Se la legge ferrea del profitto si è fatta fortemente sentire nelle politiche interne, non da meno è stata la politica estera. Da una parte, l’Italia guidata da Renzi ha condotto una linea interventista e militarista in medio oriente, dall’altra, insieme ai suoi alleati, ha trattato i “frutti” di questa guerra erigendo muri e rianimando frontiere.

Noi scegliamo di opporci a questo modello. Non accettiamo che Renzi venga ad elogiare i risultati di una ricerca che, in Italia, da un lato sta gradualmente scomparendo, come provato dai 1400 licenziamenti previsti al CNR, e dall’altro lato, quando sopravvive, viene dirottata verso aree funzionali agli interessi economici e politici. Non accettiamo che la Giannini paventi l’eccellenza dell’Università italiana mentre parallelamente le tasse universitarie aumentano e la qualità della didattica subisce un ulteriore deterioramento.

Non ci basta contestare Renzi, e con lui la Giannini, in quanto membri di un governo non eletto bensì nominato. Ogni mandato governativo e ogni tornata elettorale hanno dimostrato quanto sia pericoloso, oltre che inutile, delegare la propria rappresentanza a gruppi di affaristi che perseguono il proprio interesse. Noi scegliamo di contestare Renzi e la Giannini in quanto simboli di un potere che come tale delibera in modo autoritario sui territori e sulle comunità, perseguendo l’interesse delle lobby. Non possiamo delegare a nessuno la rappresentanza dei nostri interessi così come non possiamo accettare altro che un’organizzazione e un modello decisionale che parta dal basso e che sia partecipativo e orizzontale, rifiutando nettamente ogni gerarchia e ogni autoritarismo.

Oggi scendiamo in piazza per mostrare la nostra opposizione e continueremo a lottare consapevoli di non voler né poter delegare a nessuno la nostra libertà.

Assemblea dell’Aula R