Università e protesta: dall’Onda a oggi – Tavola rotonda

Giovedì 2 maggio, dalle 17.30 presso il Dipartimento di Scienze Politiche – Via Serafini 3, Pisa.

TAVOLA ROTONDA: UNIVERSITÀ E PROTESTA DALL’ONDA A OGGI

Nelle ultime settimane universitari e universitarie dell’Ateneo di Pisa si stanno mobilitando in opposizione alla presenza e al finanziamento con fondi dell’Università del MUT – Movimento Universitario Toscano, che tra i vari eventi ha proposto un incontro con il Ministro dell’Int(f)erno Matteo Salvini.

Cogliendo questa “occasione”, abbiamo pensato di proporre una tavola rotonda per confrontarci sulle politiche dei vari governi su formazione e università, e sulle contestazioni ad esse, partendo dai movimenti studenteschi e universitari del 2008 fino alle più recenti mobilitazioni.

Ci preme sottolineare che la Lega, che oggi contestiamo per la sua presenza e per la propaganda liberticida, razzista e sessista che vorrebbe portare anche dentro l’università, è sempre stata oggetto delle nostre contestazioni per via delle riforme universitarie che nell’ultimo ventennio ha votato e sostenuto, contribuendo a precarizzare la ricerca e ad aziendalizzare l’università.

Fare memoria storica e condividerla ci sembra fondamentale per ricordare che da sempre il motore del cambiamento siamo noi, e che ancora oggi spetta a noi il dovere di contrastare le forze reazionarie ovunque esse si trovino.

NO TAPermettere – proiezioni e dibattito sulla lotta NO TAP

Cos’è TAP? A cosa serve? Chi coinvolge? E perché da 8 anni la popolazione locale si oppone a quest’opera?
Nonostante la grande rilevanza mediatica che negli ultimi anni e mesi il conflitto intorno alla costruzione di TAP (Trans Adriatic Pipeline) ha acquisito, le vicende legate all’opera e le ragioni della mobilitazione restano, ai più, ancora poco conosciute.
Per questo, come Aula R, abbiamo scelto di aprire uno spazio di confronto sulla questione attraverso la proiezione di documentari e le voci degli/delle attivisti/e NO TAP:

Dalle 19
Proiezione TAP Aware (7.08 min.)
Proiezione di (R)esistenze dal sud (39.35 min.) di Baba Paradiso

Intervengono:
– Paola Imperatore, attivista e dottoranda. La sua ricerca si focalizza sui movimenti contro le grandi opere in Italia
– Gianluca Maggiore, attivista e portavoce Movimento NO TAP, in collegamento skype
A seguire dibattito

Dalle 21 DJ SET e BENEFITper pullman 23M, Marcia per il Clima e Contro le Grandi Opere Inutili
–> RACCOLTA ADESIONI PULLMAN DA PISA PER MANIFESTAZIONE DEL 23 MARZO Pullman da Pisa per il corteo del 23 marzo

Il progetto TAP, riguarda la costruzione di un gasdotto che, partendo da Kipoi (al confine greco-turco), approderebbe in Puglia, precisamente al Lido di San Foca in provincia di Lecce. TAP tuttavia fa parte di un progetto più ampio, il Corridoio Sud del Gas. Questa rete dovrebbe partire dai giacimenti di ShahDeniz in Arzebaijan per arrivare a rifornire l’Europa di gas. Questo significa che, una volta arrivato il Puglia, il gas dovrà risalire verso l’Europa centrale attraverso un secondo progetto, SNAM. Per trasportare il gas, sarà infatti necessario costruire altri 687 km di gasdotto, che attraverserà 10 regioni italiane tra cui quelle ad alta sismicità.
A questo progetto, presentato da TAP stesso a Melendugno nel 2011, ha iniziato ad opporsi la popolazione locale sostenendo l’inutilità dell’opera, la necessità di riconversione ad energie rinnovabili e denunciando gli ingenti costi dell’infrastruttura e l’impatto su ambiente e salute, in una regione già martoriata da Ilva, Cerano, trivellazioni, e tutta una serie di problematiche ambientali che mettono a rischio i territori e le comunità.
I governi che si sono succeduti hanno continuato a sostenere l’opera sino a che, nel 2014, il governo a guida PD autorizza la costruzione dell’opera scavalcando la volontà espressa dagli enti locali (Comuni e Regione Puglia) e dalla popolazione locale. Per far partire i lavori si arriva a istituire una zona rossa militarizzata che porta il conflitto ad inasprirsi. Con il taglio degli ulivi, che rappresentano un patrimonio di inestimabile valore e di identificazione con le passate generazioni e con la terra, prende vita uno scontro sempre più radicale tra lo Stato, a tutela di TAP, e il movimento NO TAP.
Gli attivisti e le attiviste, oltre a dare filo da torcere alla società costruttrice, arrivano a denunciare la non democraticità di uno stato, che, oltre a reprimere il dissenso, sigla accordi con stati dittatoriali come l’Arzebaijan e la Turchia, e rivendicano il proprio diritto di autodetermianrsi e decidere sui propri territori.
La lotta NO TAP si lega a tutte quelle lotte, nel paese e al di fuori, che mettono in discussione un sistema speculativo capitalista che sfrutta e devasta i territori in nome degli interessi di pochi.
E’ per questo che il movimento NO TAP sarà, insieme ad altri migliaia di comitati, gruppi e movimenti, il 23 marzo alla marcia per il clima che si terrà a Roma, per denunciare, tutt_ insieme, che questo modello di sviluppo non ci sta bene, e che vogliamo partire da noi e dai nostri territori per pensare e praticare modelli di vita e di crescita alternativi.

Economia e Guerra – dibattito

Sulla lunghezza d’onda degli incontri sull’antimilitarismo già realizzati nelle precedenti settimane, così come negli anni passati, come Aula R abbiamo scelto di dare spazio ad un’iniziativa che guardi alle relazioni tra economia e guerra nell’attuale società capitalistica.
Quello della guerra è un settore in continua espansione, al quale collaborano istituzioni e multinazionali di vario tipo, comprese le università. Da Israele, che sulla popolazione palestinese testa i propri sistemi di “sicurezza”, al Muos, funzionale al controllo militare del Mediterraneo, passando per il decreto Sicurezza o per la base di Camp Darby, presente sul nostro territorio, la militarizzazione e la guerra sembrano essere divenute normale amministrazione.
A questo proposito, proponiamo un momento di confronto con i seguenti relatori:
– Dario Antonelli, Aula R su università e guerra
– Mario D’Acunto, USPID Unione degli Scienziati per il Disarmo
– Federico Giusti, comitato No Camp Darby

Pratiche di resistenza all’occupazione dei territori palestinesi

L’Assemblea dell’Aula R propone un dibattito sulla questione palestinese al fine di riprendere da una prospettiva storica la nascita dello Stato d’Israele e del sionismo e le resistenze messe in atto contro l’occupazione dei territori palestinesi.
Uno spazio di riflessione sarà anche dedicato alla campagna internazionale BDS (Boycot, Disinvest, Sanction) finalizzata al boicottaggio delle imprese e istituzioni israeliane complici dell’occupazione dei territori palestinesi e del massacro degli/lle stessi/e abitanti.
La campagna BDS sta ottenendo dei risultati significativi, mentre al contempo alcuni stati si stanno dotando di mezzi giuridici per criminalizzare tale forma di solidarietà e di azione.
Interverranno:
– Alberto, attivista Fronte Palestina
– Alessia Tortolini dottoranda di Geopolitica presso Scienze Politiche Pisa
– Un Ponte Per… sulla campagna BDS
– Raffaele Spiga, attivista per i diritti umani.

Misfit – Troppo anarchico per definirmi anarchico. Presentazione del libro il 22 gennaio 2019.

DALLE 19.00
//PRESENTAZIONE DEL LIBRO//APERITIVO//LIVE SET//DJ SET

Martedì prossimo presenteremo Misfit – Troppo anarchico per definirmi anarchico.

Il libro parla della ricerca vera e appassionante di un proprio modo di vivere, che inizia quando l’autore, ancora ragazzo, decide di comprendere quale sia il significato vivo dell’anarchia. La vita lo porterà a percorrere strade imprevedibili, ricche di incontri, scontri, grandi passioni e intuizioni.

Ne parleremo con l’autore Paolo Faccioli; a seguire: concerto in acustico dei Suonatori Terraterra, aperitivo e dj set (reggae, punk, hip hop) con Stevo-pro&K-loop.

CineDisagio a Scienze Politiche

Vi aspettiamo ogni lunedì alle 19 in Via Serafini 3 (Dipartimento di Scienze Politiche)

Prossimi film della programmazione:

-10 DICEMBRE: 87 Ore – regia di Costanza Quatriglio (2015). Il racconto della tragica vicenda di Francesco Mastrogiovanni , insegnante lucano vittima di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) a cui è stato sottoposto nell’estate del 2009. Il documentario ripercorre, attraverso le immagini delle videocamere del reparto psichiatrico, il caso Mastrogiovanni.

-17 DICEMBRE: Pride – diretto da Matthew Warchus (2014). Nell’estate del 1984 al Gay Pride di Londra un gruppo di attivisti gay e lesbiche decide di raccogliere fondi per sostenere le famiglie dei minatori in sciopero.

La proposta del cineforum nell’Università vuole offrire agli studenti e alle studentesse alcuni spunti per l’accrescimento del sapere critico, nonché stimolare la costituzione di uno spazio di libera espressione attraverso dibattiti e convivialità.

VI REGALEREMO ANCHE DELLA DOLCEZZA.. CON THE, BISCOTTINI E ZUCCHERINI VARI!

Sulla Mia Pelle – Proiezione del film a Scienze Politiche, lunedì 8 ottobre

Dopo una pausa estiva di vacanze, riflessioni e programmazioni, abbiamo ripreso con l’organizzazione delle attività politiche, culturali e ludiche da svolgere nel presente anno accademico. La prima iniziativa che proponiamo è la presentazione e proiezione di Sulla Mia Pelle, il film che racconta le ultime e terribili ore di vita del trentunenne romano Stefano Cucchi, vittima della violenza poliziesca e delle politiche proibizioniste, ucciso brutalmente dagli agenti di polizia e dai carabinieri nel 2009 mentre si trovava in custodia cautelare nel Carcere di Regina Coeli durante il processo in cui era imputato per il possesso di hashish (pochi grammi). Sulla Mia Pelle è stato reso pubblico meno di un mese fa, ma sta già riscuotendo a livello nazionale una grande notorietà e un diffuso apprezzamento. Il film ha avuto la sua prima visione ufficiale con la partecipazione al Festival del Cinema di Venezia. Negli ultimi giorni sono state organizzate numerose proiezioni in diversi spazi sociali e da parte di tanti gruppi autogestiti, in tutta Italia.

Nella programmazione degli eventi di quest’anno abbiamo deciso di cominciare con la proiezione di questo film sia perché la morte di Stefano Cucchi e altri accadimenti analoghi sono sempre stati episodi per i quali abbiamo rivolto un rispettoso riguardo, sia perché vogliamo proseguire il percorso sulla tematica della repressione e delle sue molteplici sfaccettature: la lotta all’uso di sostanze – il proibizionismo – è una di queste.

Vi aspettiamo dunque lunedì 8 ottobre alle 19, per la visione del film e per una eventuale discussione a seguire per esprimere le nostre riflessioni in merito al film, alla vicenda di Stefano Cucchi, alle tematiche della repressione e del proibizionismo.

Assemblea dell’Aula R

LA MILITARIZZAZIONE È SICUREZZA!

È questa la visione che negli anni si è andata diffondendo e consolidando in gran parte della popolazione che vede nella presenza dei presidi militari nelle strade (come previsto dal pacchetto Strade Sicure) e nello sviluppo e potenziamento di basi militari (nel nostro territorio possiamo pensare alla base Nato di Camp Darby) una risposta alle proprie necessità di sentirsi sicur* e protett* dalle numerose minacce che incombono quando a dominare è il degrado.
Ma cos’è la sicurezza (per loro)? E cos’è il degrado (per loro)?
La sicurezza è diventato un tema centrale nel dibattito politico odierno dove istituzioni e partiti fanno a gara a chi riesce ad affermarsi su questo campo. Una battaglia che sembra poter essere vinta solo superando a destra l’avversario politico (vedi il Pd con Minniti).
E’ questo forse uno dei nodi centrali, aver lasciato alle destre questo dibattito che lo ha poi condotto verso derive securitarie e militariste.
A questa constatazione si aggiunge un secondo punto: quando parliamo di sicurezza rispetto a cosa intendiamo sentirci sicur*?
Ecco che, nelle mani delle destre e delle istituzioni, sicurezza è stata intesa come difesa dei nostri valori contro il terrorismo jihadista, contro gli immigrati, contro l’ “invasore” nelle parole di Forza Nuova. Ed ecco, che sempre nelle stesse mani, sicurezza è diventata più controllo, più militarizzazione, più restrizioni, più ordinanze volte a combattere il degrado, più “stati d’emergenza”.
Degrado, altra parolona – minaccia protagonista in questi ultimi anni. E tanti soldati pronti a combattere per la causa. Ma di che degrado si parla? Degli studenti in Cavalieri che fanno nottata e lasciano le birre in terra? Di senzatetto che dormono in stazione? Di quelli che vendono birrini a 1 euro?
Perché se è questa la lotta di cui vogliamo farci carico, almeno che si chiariscano alcuni punti. Questa non è una lotta al degrado, questa è una guerra dichiarata alla povertà, al non-consumo, a quelle vite che non producono niente nel circuito capitalista.
Una guerra che non ci appartiene.

Cos’è la sicurezza per noi? Da cosa vogliamo sentirci sicur*?
Vogliamo provare a riappropriarci di un termine di cui alcuni soggetti si sono impossessati, e dissociarlo una volta per tutte da quel significato securitario e repressivo che ha assunto.
A noi piace sentirci sicur*, ci piace tantissimo camminare per strada ed essere seren* e tranquill*. Ci piace esserl* quando torniamo a casa la sera, quando siamo all’università, a lavoro, quando piove, quando andiamo all’ospedale, quando prendiamo i mezzi di trasporto, in ogni momento.
Ma per noi SICUREZZA significa smettere di militarizzare i territori e le città, smettere di giustificare uno stato repressivo con l’emergenza terrorismo e iniziare ad occuparci delle reali emergenze, che poi sono strutturali: le morti sul lavoro, i femminicidi, le alluvioni sono solo alcuni dei reali problemi che ci affliggono, responsabili di numerosissime di vittime.
Se per la sicurezza sui luoghi di lavoro, per il mantenimento di case per donne maltrattate, per la messa in sicurezza dei territori e delle infrastrutture esistenti (così come per la realizzazione di case popolari, per il finanziamento del diritto allo studio, alla salute, e per molte altre necessità) non vi sono risorse, ecco che queste risorse misteriosamente ricompaiono per finanziare il sistema bellico. Nel biennio 2016/2017 sono stati stanziati più di 15 miliardi di euro per l’acquisto di cacciabombardieri F-35, circa 2,75 miliardi a Finmeccanica, Oto Melara e altre industrie della guerra, più le risorse destinate a pagare i circa 7000 militari italiani impegnati in missioni all’estero (cifra che porta lo stato italiano a guadagnarsi un posto da protagonista sul fronte degli interventisti.) L’impegno in questa direzione viene confermato dal governo italiano che ha scelto di investire nel 2017 il 2% del Pil per le spese militari che ammontano a 64 milioni di euro al giorno.
È questo modo di intendere e ricercare la sicurezza che mettiamo in discussione.
Noi la sicurezza la vogliamo, eccome se la vogliamo nei luoghi di lavoro. Noi, donne, trans, gay, lesbiche, la sicurezza per strada la vogliamo. Non con le telecamere e i militari, ma con una lotta seria e sistemica al patriarcato e alla violenza che esso genera. Noi la sicurezza la vogliamo quando piove, non vogliamo più alluvioni e morti causati dal dissesto idrogeologico generato dalla politica delle grandi opere, o dalla generale noncuranza.
Noi vogliamo la sicurezza, ma vogliamo anche essere i primi e le prime ad avere voce in capitolo quando si parla della nostra sicurezza, e non subire un sistema repressivo e di controllo pensato e imposto dalle istituzioni.

LA MILITARIZZAZIONE NON È LA RISPOSTA, MA PARTE DEL PROBLEMA!

Essendo la cultura militarista intrisa di violenza non può che essere, la militarizzazione, un modo di riprodurre violenza, abusi e machismo. Basti pensare agli stupri commessi a settembre da due carabinieri a danno di due studentesse statunitensi, o gli stupri commessi dai militari di strade sicure a L’Aquila, dove erano presenti proprio per rispondere all’emergenza terremoto. O ai numerosi morti duranti fermi di polizia, come Cucchi, Aldrovandi, Uva, Lonzi…
Nei tentativi di gruppi fascisti di replicare il ruolo dei militari con le ronde, pensiamo che le strade diventeranno sicure? Potranno sentirsi al sicuro tutte quelle soggettività (migranti, non eterosessuali, non riconducibili al binarismo uomo-donna) la cui esistenza non è contemplata?
E ci può far sentire sicur* avere una base militare degli Stati Uniti, che opera all’interno della Nato, e che ha al suo interno armi e materiali di cui oltretutto la popolazione locale non può essere a conoscenza (proprio per via della nocività degli stessi)? E cosa rende un luogo più sensibile della presenza di una base militare strategica?
Ma soprattutto, è questa la sicurezza di cui realmente abbiamo bisogno?

Se il manganello entra in università


Alla luce dei recenti gravissimi fatti di Bologna, come assemblea dell’Aula R ci sentiamo chiamati a esprimere la nostra posizione sull’intera questione, cercando di mettere da parte il dibattito sterile che mediaticamente ha sempre grande risonanza ma che mai riesce a far riflettere sulle cause che portano a determinate dinamiche e a quali possano essere le conseguenze.
Lo sgombero eseguito con violenza dalla polizia a Bologna in università e la conseguente mobilitazione tuttora in corso accendono un faro su una questione da noi spesso analizzata e su cui non abbiamo esitato ad esprimere preoccupazioni: il mutamento dell’Università pubblica da luogo in cui ancora si mantenevano margini di agibilità, in termini di accesso allo studio, di aggregazione e di iniziativa, residuo di quanto conquistato negli scorsi decenni con dure lotte, a mero corridoio di collegamento tra la scuola e il lavoro, irreggimentato, controllato e militarizzato, incardinato sulla collaborazione tra gli atenei e le aziende interessate alla creazione di un’Università privatizzata. Con il rifiuto totale delle istituzioni accademiche di dialogare con gli studenti e di tollerare alcuna esperienza alternativa all’interno e all’esterno degli spazi universitari, le questure e i loro manganelli diventano l’unico interlocutore dei rettori.

Nel 2015 a Pisa abbiamo vissuto un simile momento di repressione in seguito all’occupazione dell’ex-Gea portata avanti dal movimento Studenti contro il nuovo ISEE; la questura è intervenuta a sgomberare lo stabile, adibito a magazzino dei libri della casa editrice universitaria, con pistole alla mano. L’intervento della polizia venne richiesto dal rettore Augello con il pretesto del rischio di furto dei libri presenti nel magazzino, quaranta studenti rimasero a lungo sequestrati nella struttura dalla polizia.Un modo per intimidire e criminalizzare le studentesse e gli studenti attivi all’interno della protesta. Da Bologna a Pisa, così come nel resto d’Italia, si sta assistendo ad un preoccupante processo che vede l’intervento poliziesco come principale strumento di risoluzione dei conflitti, trattando così quelle che sono rivendicazioni di natura politica come questioni di ordine pubblico

Dopo lo sgombero dell’Ex-Gea seguì una mobilitazione che incontrò una notevole partecipazione spontanea. I media descrivono la situazione bolognese di oggi come divisa tra chi sostiene l’intervento repressivo della polizia e chi invece condanna l’irruzione poliziesca nei locali della biblioteca universitaria. Anzi leggendo le pagine dei giornali sembra che un consistente numero di studentesse e studenti si stia schierando dalla parte delle istituzioni e del manganello nel nome della libertà di studiare e della sicurezza. Ci troviamo però davanti a uno dei più vecchi strumenti della propaganda ufficiale, quello della “maggioranza silenziosa”, declinato ovviamente al tempo dei social network in commenti e petizioni online, in cui il bombardamento mediatico occulta le voci di coloro che dissentono e dà spazio solo a chi accetta le nuove pratiche di controllo sociale. Così mentre continuano le mobilitazioni e le assemblee studentesche si fanno più numerose, la stampa ufficiale cerca di creare consenso presentando tornelli e badge come sinonimo di sicurezza. In effetti per qualcuno possono rappresentare una sicurezza, ma restano di fatto strumenti per il mantenimento dell’ordine e dell’inviolabilità della proprietà. In questo modo viene anche criminalizzata la componente studentesca quale unico fattore di disordine, mentre i docenti vengono considerati su un altro piano, sottolineando l’autoritarismo di tale manovra

Un mezzo di controllo elettronico riservato ai soli immatricolati proibirebbe l’accesso alla biblioteca anche ai cittadini, chiarificando la reale volontà di privatizzazione della cultura. Bologna si dimostra ancora una volta un laboratorio di pratiche di repressione e criminalizzazione rispetto a quelle componenti studentesche organizzate che si oppongono all’aziendalizzazione dell’Università.D’altronde i tempi sono cambiati e i dispositivi di controllo sono sempre più capillari: telecamere, badge, tornelli e, non ultimo, la capacità di indirizzare il consenso verso l’accettazione di tali pratiche. Grazie ad un lavoro costante di dominazione dell’opinione, gli stessi schemi cognitivi dei dominanti sono stati assimilati dai dominati, che si riconoscono nelle pratiche e nelle motivazioni del sistema, legittimandolo. Così alcune studentesse e alcuni studenti sono sensibili a temi quali la difesa della sicurezza e della legalità, condannando chi in qualche modo tenta di rompere questa campana di vetro in cui siamo ingabbiati. Se l’attuale sistema è riuscito a deviare il malcontento sociale verso chi vi si oppone, a noi spetta il compito di unire quella rabbia, di farla diventare consapevolezza e lotta contro l’Università-azienda, la mercificazione della cultura e degli spazi, la messa a profitto delle nostre vite.

La crisi ha acuito lo scontro sociale e ha annichilito il movimento studentesco. Mai come adesso dovremmo, come studentesse e studenti, e soprattutto come militanti, unirci e lottare per riprenderci quello che ci spetta, abbattere il sistema autoritario e repressivo che ha lasciato sempre più spazio alle destre e alle politiche neoliberiste del governo che cercano di frammentare il dissenso fino a farlo scomparire.
Oggi come domani collettivamente lotteremo affinché i fatti successi a Bologna non si ripetano mai più.

Non permetteremo loro di toglierci tutto.

Anzi, non gli permetteremo di toglierci proprio niente.

Solidali e complici con le compagne e i compagni bolognesi

Assemblea dell’Aula R

“Scienze politiche: bagni e occupazioni”. In risposta all’articolo de La Nazione

Dopo l’articolo uscito su “La Nazione” di oggi primo febbraio 2017, intitolato “In facoltà solo un bagno per gli studenti, tutti gli altri «riservati al personale»”, riteniamo necessario, essendo stati pretestuosamente chiamati in causa, dire la nostra.

Su “La Nazione” si afferma che, dopo delle proteste sullo stato dei bagni per gli studenti a Scienze Politiche, il quotidiano locale ha deciso di indagare sul campo, avventurandosi nel palazzo di Via Serafini. È positivo che questa testata si interessi dei problemi degli studenti, che quotidianamente subiscono gli effetti del processo di privatizzazione e aziendalizzazione dell’Università, così come è positivo che qualche singolo studente intraprenda delle iniziative di protesta.

Ci teniamo però innanzitutto a precisare che l’Aula R, aula occupata nel 1990 dal movimento studentesco della Pantera, non ha niente a che vedere con la gestione dei locali decisa dalla dirigenza del Dipartimento. Appare quindi fuorviante e pretestuoso l’accostamento tra i “disservizi…igenici” e un’aula autogestita, sempre aperta dove è possibile per studentesse e studenti confrontarsi, studiare, svagarsi e appunto organizzarsi collettivamente per lottare per l’accessibilità al diritto allo studio e per il libero utilizzo degli spazi universitari. Facciamo inoltre notare che non esiste alcun “comitato studentesco Aula R” ma un’assemblea, aperta a tutte e tutti coloro che si riconoscono nei suoi metodi, che si ritrova ogni lunedì alle 16 proprio in Aula R. Dal momento che l’occupazione dell’Aula R ha il carattere politico sopra descritto, paragonarla alla “occupazione” dei bagni da parte del “personale dell’università” non ha alcun senso, a maggior ragione se consideriamo che non sono purtroppo i lavoratori stessi a decidere dell’utilizzo dei locali del proprio luogo di lavoro.

Detto questo lo stato in cui versano i bagni di Via Serafini, così come le mense universitarie, gli alloggi, e gli altri servizi per le studentesse e gli studenti è ben visibile a tutti. Questo non perché vi sia un semplice disservizio, la responsabilità non è di chi lavora in portineria, degli studenti, del personale strutturato o esternalizzato del Dipartimento, né dei fantomatici soggetti esterni all’università. L’Università è (almeno per ora e per fortuna) aperta al pubblico, per questo non vi sono controlli all’ingresso come segnalato con sgomento da “La Nazione”. All’origine del problema della mancanza di pulizia e manutenzione nei bagni, così come dei problemi relativi ad altri più significativi servizi (borsa servizi del DSU ad esempio), ci sono i tagli ed il processo di privatizzazione dell’università. Non è dunque con la chiusura degli spazi o con le crociate individuali contro il degrado che possiamo migliorare le condizioni di studio e di lavoro all’interno dell’Università ma con il confronto, l’organizzazione e l’iniziativa collettiva.

Assemblea dell’Aula R