NON VOGLIAMO FAR GIRARE L’ECONOMIA

Il 29 giugno, sotto il rettorato ha avuto luogo un flash-mob, organizzato da Confcommercio, a cui sono stati invitati politici e commercianti. Le richieste che sono state mosse al rettore e all’università sono #nonchiudiamoilcommercio e #apriamoleuniversità, lodando l’università per essere un’avanguardia nel campo dell’innovazione e della cultura e uno dei centri nevralgici dell’economia pisana, incentrata sul commercio, che ruota attorno a studenti e studentesse, in larga parte concentrato su affitti e ristorazione. Tutto ciò perpetua la retorica dominante che riteniamo necessario criticare e contestare: non ci stupisce che Confcommercio, così come Confedilizia, per l’ennesima volta ci mostrano come, chi è espressione di logiche di profitto può vedere gli individui (in questo caso universitari) solo come figure a cui estorcere denaro, o come lavoratrici/tori a basso costo da sfruttare. Così facendo si producono soggettività che hanno introiettato la logica del consumo, della passività e di una città vetrina destinata a essere consumata e non vissuta. Ricordiamo infatti che Confcommercio è stata tra le principali sostenitrici di Salvini, della giunta Conti e delle loro politiche autoritarie e liberticide. L’ultima loro proposta è quella di intensificare la già asfissiante presenza di militari e divise per le strade, colpendo così tutte quelle categorie che vivono già in una condizione di marginalità.

Ma tra i due contendenti, non ci interessa prendere le parti di nessuno: la stessa passività ci viene perpetrata a lezione, nelle università sempre più fabbriche di saperi e tecnici necessari al corretto funzionamento di questo sistema fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla donna e sull’ambiente. Questa condizione di remissività di studenti e studentesse è stata amplificata dalle condizioni di atomizzazione derivanti dalla didattica online.

Vogliamo vivere gli spazi, universitari o cittadini che siano, liberamente e autogestendo la nostra sicurezza e salute senza chiedere permessi a commercianti, palazzinari, speculatori o istituzioni, qualunque esse siano.

…DEL PROFITTO E DELLO SFRUTTAMENTO!

Dibattito con Campagne in lotta

Incontro con gli attivisti e le attiviste di Campagne in Lotta, rete in supporto della lotta politica e dei processi di auto-organizzazione intrapresi da lavoratori e lavoratrici del settore agro-industriale.

Dibattito + cena benefit // Sabato 4 luglio dalle ore 17 // Piazza S. Caterina, Pisa.

LA REPRESSIONE NON VA IN QUARANTENA

Condividiamo ed invitiamo a diffondere il comunicato di solidarietà per gli internazionalisti Eddi, Jacopo e Paolo:

ATTENZIONE: Imminente la decisione del Tribunale sulla “Pericolosità sociale” di Eddi, Jacopo e Paolo.
Epidemia o meno, la repressione non va in quarantena. Riportiamo il comunicato scritto dagli internazionalisti minacciati dalla misura di sorveglianza speciale da parte della procura torinese:

La richiesta di applicare questa pesante misura di prevenzione (inizialmente a cinque persone a Torino e una in Sardegna) risale a gennaio 2019. Eddi, Jacopo e Paolo NON sono accusati di alcun reato, ma sarebbero da considerare “Socialmente pericolosi” perché hanno sostenuto i curdi siriani durante la loro lotta contro l’Isis. Questa ipotesi è talmente assurda e offensiva che il solo fatto che la procura l’abbia formulata è uno scandalo. È una mancanza di rispetto verso le vittime europee e mondiali del fondamentalismo e i caduti siriani e internazionali nella guerra contro lo Stato islamico.

Come se non bastasse, la Sorveglianza speciale è un residuo dei codici fascisti che limita fortemente la libertà personale senza accuse e senza processo: rientro notturno nella propria abitazione, espulsione da Torino e confino in un altro comune, divieto di incontrare più di due persone e di partecipare a qualunque evento pubblico, revoca del passaporto e della patente… Per quanto possa apparire incredibile, queste limitazioni non sono richieste perché siamo accusati di aver commesso un reato (che infatti non esiste, come ammesso dalla stessa procura), ma in base a una previsione sul nostro possibile “comportamento futuro”, che si ritiene sarebbe “pericoloso per la società”.

Inizialmente la Pm Emanuela Pedrotta intendeva giustificare questo pronostico sulla base della nostra scelta di sostenere i curdi. A partire da giugno, su indicazione del tribunale, ha aggiustato il tiro dicendo che solo tre di noi sarebbero pericolosi (pensando così di dividerci) per le manifestazioni e le attività politiche svolte in Italia. La nostra risposta è sempre stata e continua ad essere che siamo tutti uniti in questa vicenda e non ci considereremo liberi se anche a soltanto una o uno di noi sarà limitata la libertà. Tutte le attività politiche svolte in Siria, in Italia o altrove da ciascuno di noi in questi anni rispondono all’esigenza imprescindibile di opporci a un sistema sociale ingiusto e di costruire una società migliore.

Nonostante questo il 16 dicembre la Pm ha richiesto di applicare la misura della Sorveglianza Speciale per 2 anni a Eddi e Jacopo e un anno a Paolo. Il tribunale si è preso tre mesi di tempo per decidere, quindi entro il 16 marzo si saprà “l’oracolo” dei giudici sui “comportamenti futuri” di tre persone colpevoli di aver aiutato una popolazione in lotta contro i peggiori criminali del mondo e di aver liberamente espresso il loro dissenso in questi anni (con manifestazioni che non hanno mai messo in pericoloso le persone o la collettività) verso lo sfruttamento del lavoro, la speculazione pubblica sul territorio, le condizioni di vita dei detenuti e altre questioni che è dovere di tutti affrontare, checché ne pensi la procura di Torino.

Nei mesi scorsi l’attenzione e la solidarietà di tantissime persone è stata importantissima per non far passare questa vicenda sotto silenzio come avrebbe desiderato il Tribunale. Chiediamo ancora a tutti e tutte uno sforzo di attenzione nei prossimi giorni. Nel caso i giudici decidano che Eddi, Jacopo e Paolo sono da considerare socialmente pericolosi, ci sarà ancora bisogno di far sentire la nostra voce. Proprio perché la diffusione del Covid-19 rende impossibili, almeno in questo momento, le mobilitazioni all’aperto, chiediamo che la reazione a un’eventuale decisione negativa si manifesti con una forte e importante mobilitazione sul web.

Jacopo Bindi
Davide Grasso
Maria Edgarda Marcucci
Fabrizio Maniero
Paolo Pachino

NEI CPR SI MUORE

Sabato 18 Gennaio nel mondo reale, nel CPR di Gradisca d’Isonzo, la violenza dei manganelli della polizia uccideva Vakhtang Enukidze mentre il dibattito pubblico italiano era febbrilmente occupato a discutere della violenza verbale della retorica di Salvini e dei leghisti nel mondo virtuale dei social. Otto poliziotti in tenuta antisommossa sono entrati nella sua cella e l’hanno accerchiato e picchiato. Lui è caduto, sbattendo la testa contro un muro. Mentre era a terra alcuni poliziotti gli hanno messo i piedi sul collo e sulla schiena, l’hanno ammanettato e portato via. Poi è morto. Forse già al CPR, forse poco dopo.
La sua morte non è stata comunicata ai compagni reclusi, che ne sono comunque venuti a conoscenza e confermano che ha subito violenze da parte delle forze dell’ordine. Successivamente il 21 Gennaio alle 4 del mattino i tre compagni di cella di Vakhtang Enukidze, colpevoli di aver parlato con gli avvocati della morte del loro compagno di reclusione, sono stati rimpatriati in Egitto rendendo impossibile la loro testimonianza per un eventuale processo contro i colpevoli di questo assassinio.
A rendere ancora più sinistra questa storia è il fatto che i giornali ufficiali per lungo tempo l’abbiano taciuta o l’abbiano presentata come una morte avvenuta a seguito di un arresto cardiaco (RAI) o di una rissa fra internati (stampa locale del Friuli). Tutto ciò fa pensare che quello di Gradisca non sia un evento isolato, ma che è stato uno dei pochi in cui la notizia è riuscita, grazie all’azione dei militanti conto la detenzione amministrativa, a scavalcare le mura di cinta e di indifferenza che circondano i CPR.
Questo evento rende ancora più evidente che la retorica dell’“emergenza fascismo” è miope: il fascismo non sta emergendo ora con la becera retorica del populismo fascioleghista, me è una forma strutturale della Repubblica italiana sin dalla sua nascita (basti pensare alla amnistia Togliatti e alla conservazione del codice Rocco del 1930). All’interno di un sistema fondato su Capitale e Stato ogni questione non può che essere affrontata in maniera autoritaria indipendentemente dal colore politico del governo in carica e la questione immigrazione non fa eccezione. Il sistema dei CPR è stato istituito dal governo di sinistra Prodi I e si fonda sull’istituto giuridico della detenzione amministrativa che è la stessa dicitura dei campi di concentramento nazisti e dei campi di prigionia per palestinesi in Israele. Bisogna comprendere che la barbarie fascista non va considerata come un evento speciale in cui il male assoluto è entrato nella storia, ma va vista in ogni azione banale in cui anche il bravo e onesto padre di famiglia, “uso ad obbedir tacendo”, esegue acriticamente gli ordini impartitigli dai superiori senza interrogarsi sulla moralità di questi. È necessario criticare e opporsi a Salvini e affini, ma è ancora più necessario criticare e opporsi a quell’iceberg di sfruttamento, autoritarismo e servilismo di cui la Lega e il populismo di destra sono solo la punta.
COMPLICI E SOLIDALI CON GLI INTERNATI NEI CPR IN RIVOLTA
CHIUDERE TUTTI I CPR
Aula R

“Le Scarpe Dei Matti” – Presentazione del libro a Scienze Politiche

PISA, VENERDI 31 GENNAIO
c/o l’aula magna della facoltà di SCIENZE POLITICHE,
in via serafini 3 alle ore 17
il Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud, in collaborazione con Aula R,
presenta il libro:

“LE SCARPE DEI MATTI ”

di Antonio Esposito
edizioni Ad Est dell’Equatore
sarà presente l’autore

per info  antipsichiatriapisa@inventati.org

“Un pomeriggio d’inverno, tra i seminterrati dell’ex manicomio civile di Aversa, come epifania, si danno allo sguardo centinaia di scarpe accatastate, impolverate, rotte, rosicate dai topi, spesso spaiate. Cumuli di scarpe senza lacci, pezzi di storie smarrite, testimonianza di sentieri interrotti e cammini traditi, abbandonati in quell’Altrove, ‘le reali case dei matti’, spazio di potere, di esclusione, di dolore.

Da quell’incontro, si è attraversato oltre un secolo di storia italiana, indagando le pratiche discorsive, le normative, le tecniche che hanno definito il discorso psichiatrico in Italia: dalle previsioni d’internamento contenute nella legge del 1904 al superamento dei manicomi determinato dalla 180 del 1978, passando attraverso le esperienze di psichiatria critica e l’utopia della realtà basagliana e fino all’attuale organizzazione dei Servizi territoriali per la salute mentale. Queste pagine si interrogano su un futuro che è sempre già alle nostre spalle, storicizzando le questioni che oggi sono poste, a fronte dello smantellamento del welfare, dal TSO, dalla contenzione meccanica e farmacologica, dalle Rems, dalle nuove forme di manicomializzazione, dalla psichiatrizzazione manualistica della vita quotidiana, dalle ri-categorizzazioni securitarie dei ‘soggetti pericolosi’.

Non ci sono risposte, solo il tentativo di riflettere su problematiche che intersecano i destini biografici di milioni di persone, le loro sofferenze e solitudini ma anche le istituzioni, i saperi, i dispositivi coinvolti nella loro gestione; convinti che sia possibile curare, cioè prendersi cura della sofferenza psichica ma consapevoli che esiste un fascino sempre meno discreto del manicomio.

Scrive Assunta Signorelli nel prezioso saggio che apre questo libro: “ Se, invece di progettare e costruire cronicari sempre più grandi, eufemisticamente chiamati residenze con aggettivi più diversi e fantasiosi, ci si soffermasse sulla necessità per la persona malata di mantenere un legame con il proprio passato, la propria esperienza sociale e relazionale, di vivere la malattia come un passaggio, certamente doloroso, della propria vita […], non solo le forme e i luoghi del trattamento sarebbero a dimensione umana, ma la cronicità stessa scomparirebbe, trasformandosi l’esperienza di malattia e la sua evoluzione, in una forma dell’esistere, visto che la normalità, intesa nel senso nobile del termine, altro non è se non un continuo oscillare fra salute e malattia, entrambe strettamente collegate all’ambiente socioculturale nel quale la persona vive”.

50 ANNI DI STRAGI DI STATO – LA LEZIONE DI PIAZZA FONTANA

Tra il 1968 e il 1969 la spinta delle lotte operaie e studentesche ottiene risultati che fino a pochi mesi prima erano difficili da immaginare. Non si tratta più soltanto di strappare condizioni migliori ma di prendere in mano la propria vita per cambiarla e cambiare l’intera società. Uno slancio rivoluzionario che lo Stato vuole fermare ad ogni costo. La polizia spara su chi sciopera, attacca assieme ai fascisti chi scende in piazza. Ad Avola, Battipaglia, Roma, Torino, ma anche a Pisa e a Viareggio si contano i morti e i feriti della violenza poliziesca. Questa violenza è parte della strategia della tensione messa in atto dallo Stato in quegli anni. Tale strategia mirava a preparare il terreno a trasformazioni in senso dittatoriale o comunque autoritario dell’ordinamento politico.
Il 25 aprile 1969 a Milano esplodono degli ordigni alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Stazione Centrale, ci sono venti feriti. È la prova generale di quanto avverrà nei mesi successivi. Sono le prime bombe della strategia della tensione, piazzate dai fascisti di Ordine Nuovo di Franco Freda e Giovanni Ventura. Gli apparati dello Stato muovono una prima montatura repressiva contro un gruppo di giovani anarchici. Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, è tra coloro che più si impegnano nella difesa di questi compagni, sia fornendo aiuto e sostegno materiale e psicologico, sia cercando di far luce sui fatti.
Il 12 dicembre 1969 una bomba esplode a Milano in Piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura; ci sono 17 morti e oltre 100 feriti. Altre bombe esplodono a Milano e a Roma senza provocare vittime. Subito le indagini si orientano verso il movimento anarchico e la sinistra rivoluzionaria, in tutta Italia scattano centinaia di perquisizioni, fermi e interrogatori. Giuseppe Pinelli, convocato in questura a Milano la sera del 12 dicembre, viene ucciso nella notte tra il 15 e il 16 dicembre per i colpi ricevuti durante l’interrogatorio nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi e dopo esser stato gettato dalla finestra di quell’ufficio, al quarto piano. Vengono arrestati con l’accusa di aver compiuto la strage alcuni anarchici del Circolo 22 marzo di Roma, tra cui Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola, Emilio Bagnoli, Emilio Borghese, Roberto Mander. Per molti è fin da subito chiaro che si tratta di una montatura, e negli anni successivi la controinformazione e le lotte riescono non solo a smascherare i piani dello Stato ma anche a ottenere la liberazione di tutti i compagni accusati degli attentati del 25 aprile e del 12 dicembre 1969, diffondendo nella società la consapevolezza della diretta responsabilità dello Stato e dei fascisti nella strage di Piazza Fontana e negli altri attentati.
Ricordare a cinquanta anni di distanza queste vicende è importante perché è una storia che non è mai passata. In Cile, in Ecuador, in Francia, in Grecia, in Iraq, in Iran, in Turchia ma anche in Italia lo vediamo quotidianamente. Chi è al potere è sempre pronto a utilizzare la violenza, anche la più brutale, per difendere i propri privilegi. Se questi fatti ci insegnano che la violenza brutale e il fascismo sono uno dei tanti strumenti che lo Stato e il capitale usano per conservare la propria autorità, diviene allora necessario comprendere l’impossibilità di delegare alle Istituzioni la resistenza alla deriva autoritaria e poliziesca in atto in Italia da diversi anni. Questa svolta autoritaria non può essere frenata dall’autorità giudiziaria o dalla Costituzione che è l’atto costituente proprio di quell’autorità statale difesa anche con lo strumento del fascismo (non a caso i relatori della “costituzione più bella del mondo” si guardarono bene dal cancellare il codice Rocco del 1930 che colpisce ancora oggi chi non si limita alla sterile e democratica “espressione di dissenso” con pene spropositate come quella per devastazione e saccheggio), ma solo dall’azione di coloro che, organizzandosi orizzontalmente con chi vive le stesse situazioni e tensioni, contrastano il fascismo e l’autoritarismo in prima persona.

PROIEZIONE FILM “12/12- PIAZZA FONTANA” GIOVEDì 12 DICEMBRE A SCIENZE
POLITICHE (Via Serafini 3), a seguire dibattito e distribuzione di materiale informativo

AULA R

L’Università è neutrale?

Qui di seguito riportiamo il comunicato di contestazione al Job Meeting, evento promosso e co-organizzato dall’Università di Pisa e tenutosi il 28 Novembre.

Il 28 Novembre, alla stazione Leopolda, si terrà il Job Meeting: una “fiera” che ha tra gli organizzatori anche l’Università di Pisa, in cui i neolaureati potranno entrare in contatto col mondo del lavoro incontrando numerosi esponenti di diverse aziende a cui potranno consegnare il proprio curriculum nella speranza di essere ritenuti degni di un impiego.

 Ma quali sono le aziende ospiti del Job Meeting? Si tratta di colossi dell’industria (tra cui quelle del settore bellico occupano uno spazio considerevole), istituti di credito, compagnie che offrono servizi di management, agenzie interinali e molto altro ancora.

Solo per citare gli esempi più eloquenti tra le diverse aziende presenti compaiono agenzie interinali come Randstad, responsabile dello sfruttamento e della precarizzazione dei lavoratori con la sua azione di caporalato 2.0, l’industria di armamenti Leonardo S.p.A. che qui a Pisa costruisce pezzi per elicotteri da guerra, a Livorno parti di siluri e che rifornisce lo Stato fascista turco, PwC che opera nel campo degli strumenti tecnologici per il controllo sociale e le smart cities, Accenture che in collaborazione con UNHCR produce sistemi per il riconoscimento biometrico dei migranti e infine Piaggio che solo due mesi fa non si è fatta problemi a licenziare 50 operai a Pontedera, a pochi chilometri da qui.

Organizzando questa manifestazione, UniPi si toglie la maschera e si mostra per ciò che è realmente: sebbene la retorica dominante descriva il mondo accademico come il “tempio del sapere”, come un luogo separato e neutro non influenzabile dal contesto storico-sociale dove poter studiare e formarsi liberamente al riparo dal mondo esterno, l’università, come ogni altra istituzione, è un tassello del sistema capitalistico e in quanto tale ha il compito di produrre saperi e figure professionali necessarie al corretto ed efficiente funzionamento di un mondo che si fonda su sfruttamento, guerra e controllo sociale.

Questa situazione non è una novità ma il processo di aziendalizzazione dell’università ne ha sicuramente amplificato la portata: a seguito delle politiche di privatizzazione portate avanti negli ultimi 25 anni da tutti i governi, indipendentemente dalla fazione politica, esponenti di industrie e aziende hanno un posto assicurato negli organi decisionali degli atenei potendo così direttamente indirizzare la didattica e la ricerca per i loro scopi. 

Eventi come il Job Meeting o il Career Day sono momenti in cui l’università-azienda mette sul mercato i suoi “prodotti” che finiranno per ingrossare le fila di precari e sfruttati, condizione cui erano stati già abituati con i numerosi tirocini non pagati promossi dai vari atenei.

 Dato che abbiamo visto gran parte dei progetti di ricerca e dei corsi universitari per vedere la luce deve attirare fondi privati o pubblici e per fare ciò, naturalmente, deve produrre saperi, tecnologie o figure impiegabili da aziende o enti pubblici. In un mondo che, come abbiamo detto, si basa su una violenza strutturale dall’alto, questo significa produrre strumenti e saperi che non sono neutrali, ma, al contrario, sono complici di tale violenza.   

Non è dunque un caso che all’università di Pisa ci sia un laboratorio specializzato in sistemi radar e telecomunicazioni in cui vengono portati avanti progetti di ricerca insieme al Ministero della Difesa e alla NATO come Lab RaSS o borse di studio per dottorati nell’ambito dell’ingegneria aerospaziale e delle telecomunicazioni finanziate da Ingegneria dei Sistemi S.p.A. (azienda che collabora con il Ministero della Difesa).

Sebbene le intersezioni fra mondo accademico e militare risultino più evidenti ed esplicite nell’ambito  scientifico ciò non significa che i dipartimenti umanistici non siano invischiati col sistema bellico. Spesso il sapere umanistico-sociale ha il compito di  normalizzare e giustificare la guerra tramite la produzione di teorie che cercano di nasconderne il vero volto definendo le operazioni militari come operazioni di peace keeping  (mantenimento della pace)  o di state building, insomma “la libertà è schiavitù, la guerra è pace, l’ignoranza è forza”!

 Sempre per attenerci al caso pisano possiamo notare che all’interno del dipartimento di Civiltà e forme del sapere di UniPi figuri il corso di laurea magistrale in Scienze per la pace: trasformazione dei conflitti e cooperazione allo sviluppo che ha tra i suoi sbocchi lavorativi quello di funzionario per la soluzione pacifica dei conflitti che agisce anche nell’ambito del peace-keeping. Dunque una delle “meravigliose opportunità” che l’Ateneo ci offre è quella di spendere le nostre conoscenze in ambito politologico e antropologico agendo da mediatori fra militari e popolazione rendendo più efficace e meno problematica la presenza degli eserciti degli stati imperialisti nelle proprie colonie. Ci sentiamo di affermare che se l’Università è un tempio lo è nel senso che, come ci insegna la storia, è proprio dai templi che nascono le parole d’ordine e partono i crociati per la guerra santa.

Crediamo che, come studenti, un primo passo per affrontare la contraddizione che ci vede parte integrante dell’istituzione universitaria sia quello di diradare la cortina di fumo dell’ideologia della neutralità accademica. Ciò si può fare solo comprendendo che, nonostante ci venga descritta come un’era post-ideologica, la nostra è un’epoca dove l’ideologia dominante è onnipresente. Diviene a questo punto necessario approcciarci in maniera critica ai saperi che ci vengono impartiti, negandone alcuni e strappandone altri senza tuttavia renderli oggetto di uno studio meramente accademico e “musealizzante”. Ma ciò non basta: presa coscienza della situazione, bisogna bloccare gli ingranaggi della macchina bellica che sono vicino a noi prendendo spunto dai portuali marsigliesi, genovesi e di  Le Havre che da maggio di quest’anno lottano con scioperi e picchetti contro la compagnia saudita Bahri e il suo carico di armi. 

Una prima occasione per fare ciò potrebbe essere rovinare il tappeto rosso che l’università stenderà ai piedi delle aziende sfruttatrici e guerrafondaie in visita il 28 novembre alla Leopolda per il job meeting.

                                                                                                                       Antimilitaristi/e,

                                                                                                                    Aula R e Garage Anarchico

Comunicato per Arte In Università

ARTE IN UNIVERSITÀ- XII EDIZIONE
VI ASPETTIAMO DALLE 20 AL DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE, IN VIA SERAFINI 3!

Spesso l’università ci viene presentata come un microcosmo al riparo da ciò che avviene nel “mondo esterno”. Noi invece crediamo che questa visione sia falsa: il mondo universitario è espressione dell’assetto politico-sociale dominante, oltre che tassello fondamentale per la sua efficienza.
Essendo il questo nostro “microcosmo” espressione e parte del “macrocosmo”, le politiche e i discorsi che dominano il dialogo politico-istituzionale si ripropongono anche nel contesto universitario in cui ci muoviamo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’evidente svolta autoritaria e securitaria, perfettamente rappresentata dal Decreto Minniti e completata dal Decreto Sicurezza, che ne è la diretta evoluzione. Allo stesso modo in Università le politiche repressive, figlie di questa svolta, si stanno facendo sempre più pressanti. Nel nostro Ateneo, ad esempio, abbiamo visto fioccare diffide per qualsiasi evento di approfondimento e socialità organizzato dal basso, senza il benestare di alcuna istituzione.
Anche fuori dal contesto pisano abbiamo esempi di tale tendenza, il più eclatante fra questi è la speculazione dei soliti sciacalli sul tragico incidente avvenuto alla Sapienza di Roma soltanto pochi giorni fa.
Noi crediamo che per reagire a questa deriva autoritaria e securitaria sia necessario continuare per la propria strada con le proprie pratiche, per evitare che, in futuro, anche quelle azioni che oggi ci sembrano banali vengano impedite, represse.
Per questo abbiamo deciso di occupare il Dipartimento di Scienze Politiche per realizzare la XII Edizione di “Arte in Università. Festival delle Arti Indipendenti”, proprio per ribadire l’importanza e la necessità di momenti di socialità e cultura dal basso, slegata dalle logiche del mercato e del profitto.

AULA R

Arte In Università – XII Edizione

Non ci fermiamo neanche quest’anno!
Ci riprendiamo ancora una volta una boccata d’aria fresca in un’estate che è appena iniziata e che già ci sta soffocando tra caldo, esami e diffide! Come da tradizione, una serata strapiena di quadri, poesie, foto, musica e tantissima presabbene, in supporto dell’autoproduzione contro la mercificazione delle varie forme d’arte. Invitiamo tutti e tutte a partecipare! Ci vediamo dunque il 5 luglio, da qualche parte in università!

(trovate le ulteriori info nell’immagine qui sotto)